Da Iglesias a Bloomberg sulle ali dell’IA: Enrico Santus

Il protagonista della puntata è Enrico Santus, Head of Human Computation di Bloomberg a New York.
Cresciuto a Iglesias, Enrico si è laureato nel nostro Ateneo in Linguistica nel 2013, volando poi a Hong Kong con una prestigiosa borsa di studio per un dottorato in Linguistica computazionale.
Prima di approdare in Bloomberg, la sua carriera lo ha portato a fare ricerca tra Singapore e Boston per il MIT, a lavorare per aziende come Microsoft e Bayer e persino…a parlare d’intelligenza artificiale alla Casa Bianca.


Ascolta la puntata del podcast dedicata alla storia di Enrico:

Ciao Enrico. Hai lasciato la Sardegna a 18 anni per studiare Lettere a Pisa, raccontaci di quei primi anni.

Da piccolo non ho mai viaggiato, fatta eccezione per due brevissimi viaggi a Londra. Uno per trovare mio fratello, e uno coi miei amici, intorno ai 17 anni. Quando decisi di iscrivermi all’Università (era luglio o agosto), scelsi Pisa perché il DSU offriva buone borse di studio agli studenti nella mia categoria di reddito. Ricordo che presi il treno verso Olbia a fine agosto. Da lì la nave per raggiungere Livorno. Mi venne a prendere il proprietario della casa in cui avevo deciso di affittare una camera doppia. Durante la strada verso Pisa mi chiedevo dove fossero i grattacieli che mi ero immaginato di vedere…Ero stupito che Pisa non fosse poi una metropoli. Nei giorni successivi mi iscrissi all’Università e piano piano iniziai a familiarizzare con la mensa, Piazza dei Cavalieri, Borgo Stretto, e tutti quegli altri luoghi di incontro.

Mi iscrissi a Ingegneria Informatica, perché era il proseguimento naturale del mio corso di studi come perito tecnico informatico. Ma non durai tanto. Nell’ultimo anno di scuola superiore avevo scoperto la passione per le Lettere, grazie ad una professoressa – la Pellegrini – sopra le righe. Ho sempre avuto il sogno di diventare uno scrittore e decisi di seguire quella passione, complice il terrore per l’esame di Analisi. A lettere incontrai un’altra persona magica, Marie Jaton, professoressa di Letteratura Francese, e numerosi amici…Iniziò un percorso incredibile, dove iniziai a sentirmi padrone del mio destino.

Oggi sei una figura di spicco nel campo dell’intelligenza artificiale, ma hai sempre coltivato in parallelo una passione per la scrittura. Come hanno interagito questi due mondi nel tuo percorso?

Nonostante una formazione tecnica, a Lettere passavo gli esami col 30, qualche volta con la lode. Leggevo decine di libri al mese per recuperare il gap coi miei colleghi che venivano dal Liceo Classico. Diderot, Flaubert, Voltaire, Goethe, Dante, Moravia, Pirandello…

Fondai una rivista letteraria, Aeolo, e iniziai a scrivere per il Tirreno. La mattina mi svegliavo prestissimo per comprare il primo giornale e godermi la soddisfazione di avere un articolo firmato, sia che la firma fosse in prima o in ultima pagina. La rivista crebbe, grazie anche alla pubblicazione di Boris Pahor, il candidato sloveno al Nobel per la Letteratura. Il viaggio a Trieste per conoscerlo fu uno dei miei primi viaggi in Italia. Me ne innamorai. Iniziai ad esplorare varie città, come Firenze, Roma, Milano, Venezia. Feci un Erasmus a Londra, che mi aiutò a diventare più pragmatico e meno idealista. Mi laureai nel 2009 in Lettere cum laude, e l’ultimo esame fu in Linguistica Computazionale, materia che mi incuriosì particolarmente (le reti neurali allora erano quasi solamente teoriche!) e che proseguii a investigare durante la specialistica, conclusa nel 2016 cum laude.

Fu durante l’ultimo anno della specialistica che venni contattato da Lionbridge, un vendor di Microsoft, per contribuire ai grammar checker. Mi chiesero quanto volevo: risposi 9 euro all’ora. La loro reazione fu di sorpresa: “Dobbiamo pagarti almeno 13 euro all’ora”, mi dissero. Il primo anno contribuii al grammar checker dell’italiano come sviluppatore. L’anno successivo fui promosso come team lead per portoghese e brasiliano. Due anni dopo gestivo 8 team, inclusi Inglese, Coreano, Tedesco, e Ungherese.

A un certo punto della tua carriera sei stato persino invitato a parlare alla Casa Bianca: come ci sei arrivato?

La crescita dentro Microsoft mi dette molta confidenza nelle mie capacità. E queste aziende sanno premiare il merito. La mia paga oraria era triplicata in 3 anni. Nel frattempo, avevo fatto diversi Erasmus (Stoccarda e Hong Kong). Di Hong Kong mi ero innamorato. Decisi di fare richiesta per il dottorato e ottenni la più prestigiosa borsa di studio nella ex colonia. In tre anni, ho pubblicato una decina di paper nelle maggiori conferenze in giro per il mondo. Avevo viaggiato tutto il Sud Est Asiatico, molta Europa e persino messo i piedi in USA.
Fu allora che un amico mi segnalò la possibilità di fare un post-doc tra Singapore (SUTD) e il Massachusetts Institute of Technology (MIT). Mi candidai, nonostante tanti mi dissero che non mi avrebbero mai e poi mai considerato. Qualcuno mi derise per il solo fatto di aver provato. Ero andato incontro a questo tipo di derisione più volte nella mia vita (anche quando cambiai dall’Alberghiero all’Istituto Tecnico, dove comunque mi diplomai con massimi voti un anno in anticipo, per merito), e sapevo che non dovevo lasciare tale derisione vincere sull’opportunità che avevo davanti. Venni selezionato da Regina Barzilay, uno dei più importanti professori nel settore del Natural Language Processing, e certamente una persona non nota per la generosità di giudizio.

Quando arrivai al MIT tutto si fece difficile. Dovetti confrontarmi con ingegneri hard core, che scrivevano equazioni sui muri, mentre io non masticavo il linguaggio matematico da anni. Ero disperato… Poi un giorno scoprii che c’era un progetto di una grande casa farmaceutica quasi sul punto di fallire. Mi sedetti, e cercai di comprendere cosa stesse succedendo. Gli ingegneri, per quanto brillanti, non erano motivati e non avevano compreso il problema fino in fondo. Mi sedetti con loro e iniziai a fare brainstorming, finche’ piano piano quegli stessi ingegneri che per sei mesi non avevano prodotto niente ora pullulavano di possibili soluzioni. Il progetto si concluse qualche mese più tardi, con un successo. La casa farmaceutica mi offri un lavoro, ma decisi di rimanere al MIT ancora per un anno.

Fu allora che una sera ricevetti una chiamata di un dipendente della Casa Bianca che voleva comprendere meglio come funzionasse il Machine Learning e l’AI. Gli detti qualche lezione su Zoom, e lui – per ricompensarmi – mi invitò per un talk. Fu un onore. Fino ad allora, non avevo mai ricevuto un invito istituzionale e questa volta lo stavo ricevendo dall’Istituzione più importante del mondo. Il talk andò bene. Parlai di Natural Language Processing davanti a una ventina di persone che lavoravano nell’amministrazione Trump e nel dipartimento di IT e Cybersecurity. Preparai anche un progetto nei mesi successivi. Qualche mese dopo il Belfer Center di Harvard, che lavora coi policy makers, mi chiese di redigere un fact-sheet sull’AI che potesse aiutare a educare i corpi regolamentatori, quali il Congresso americano. Quello fu il primo. Il secondo lo abbiamo pubblicato quest’anno.

Hai preso parte a vari progetti di ricerca negli anni. Ce n’è uno a cui tieni di più?

Durante la crisi del COVID provai un senso di assoluta urgenza di contribuire ad una soluzione. Iniziai a lavorare – giorno e notte – a progetti come le app di tracciamento (come quella del MIT, Safe Paths, che ancora esiste), ricerche scientifiche sulla produzione assistita da AI di farmaci e vaccini, e fondai persino una startup che produceva un piccolo braccialetto capace di vibrare se non si rispettava la distanza di sicurezza, per poi iniziare ad emettere suoni se tale distanza non veniva rispettata per lunghi periodi. Il braccialetto si spegneva solo nel caso in cui le due persone cliccassero allo stesso tempo un bottone (e quindi diventavano “amici”), oppure quando la distanza veniva nuovamente rispettata. Questi progetti furono quelli dove applicai tutto me stesso, senza risparmiarmi in alcun modo.

Qualche mese prima – insieme a un’artista tedesca che parla bene l’italiano – Diemut Strebe, avevo congegnato una bocca meccanica che pronunciava preghiere generate automaticamente con AI. Quest’opera d’arte era stata esposta al centro Pompidou di Parigi… anche quella una piccola soddisfazione.

Oggi lavori a New York per Bloomberg e ricopri il ruolo di Head of Human Computation: di cosa ti occupi esattamente?

Mi occupo di migliorare l’interazione uomo-macchina nella gestione e nell’elaborazione dei dati e delle annotazioni. Tutti parlano di AI, ma pochi sanno che l’80% degli sforzi nei progetti di AI riguarda la gestione dei dati, dalla loro creazione al loro processamento e annotazione. Pochi sanno anche che l’85% dei progetti in AI fallisce, e i dati coprono 6 delle top 10 ragioni per questi fallimenti…Ecco, il mio ruolo è migliorare tutte le attività legate al dato, mettendo insieme le migliori potenzialità delle macchine e degli esseri umani.

Chiudiamo con la domanda di rito: se potessi tornare indietro nel tempo a quando eri uno studente che consiglio ti daresti?

Non cambierei niente. Ogni passo fatto mi ha portato qui, e non c’è alcun altrove dove riesco ad immaginarmi. Mi direi di continuare a seguire le mie passioni senza paura, e che non tutti i mali vengono per nuocere. Spesso mi chiedo quale ruolo abbia giocato la fortuna nella mia vita, e poi mi rispondo che la fortuna c’è stata senza dubbio, ma che in fondo la fortuna aiuta solo gli audaci. Io ho spinto ogni muro davanti a me, ogni singolo giorno ed ogni singola ora. Ho fallito tante volte, ma a furia di spingere, qualche muro si è mosso ed ha aperto varchi interessanti.

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